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Venerdì 27 Luglio 2007 - Intervista a mons. Trasarti

Da Fermo a Fano

In esclusiva monsignor Armando Trasarti parla della sua formazione, delle sue esperienze, di ciò che lascia a fermo e di quello che si propone di fare a Fano

"Alla chiesa di Fermo devo solo dire grazie"

"In questi giorni mi torna sempre in mente la frase che mi diceva un mio vecchio direttore spirituale, monsignor Marcello Manfroni: ‘quando arrivi in un posto nuovo devi vedere, osservare e provare ad amare, senza dare giudizi, poi potrai dire qualunque cosa’. È l’unico programma che ho al momento per la diocesi che mi è stata affidata”. Monsignor Armando Trasarti, vescovo eletto della diocesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola quasi non aspetta la prima domanda dell’intervista, ma con la passione che lo contraddistingue comincia subito a parlare del suo futuro tra una raffica di telefonate di congratulazioni, persone che lo cercano e i mille dettagli di cui si deve occupare in questi giorni: si vede che è stanco, provato dal caldo ma sereno e proteso verso quella chiesa di “lassù” che lo aspetta. D’altronde anche nel suo motto ha scelto quella frase che Gesù dice agli apostoli nel momento della tempesta e dell’incertezza: “Ego sum, nolite timere”, sono io, non abbiate paura".



Monsignor Trasarti un attimo per favore: prima di diventare un’“eccellenza” lei è stato semplicemente “don Armando”, sacerdote della diocesi di Fermo. Come è nata la sua vocazione?

"Fondamentale è stato l’incontro con monsignor Michetti, mio antico parroco, uomo intelligente e pastore sollecito. Quando già era vescovo ausiliare di Fermo lui accudiva un suo zio invalido: la mattina si occupava di lavarlo completamente e spesso io lo accompagnavo e servivo messa con lui quando aveva finito di occuparsi del parente.

Poi devo ringraziare quegli insegnanti che mi hanno fatto veramente appassionare della teologia: io ero in seminario già da diversi anni ma monsignor Gabriele Miola, monsignor Duilio Bonifazi, monsignor Romolo Illuminati e monsignor Angelo Fagiani mi hanno fatto scoprire il gusto della chiesa post-conciliare: erano gli anni ’60, periodo difficile ma ricco di fermento.
Nella mia formazione sono state molto importanti le esperienze di lavoro: quattro mesi in una fabbrica del nord con cinquecento operai e cinque anni di impiego estivo negli alberghi. Sono esperienze che mi hanno insegnato il valore della fatica, la grande dignità del mondo del lavoro e dei sindacati ma anche le difficoltà delle famiglie e la gestione dei rapporti umani. Infine c’è stata la parrocchia “operaia” di Porto Sant’Elpidio, dove arrivai per due anni prima di diventare prete: lì incontrai don Vincenzo Antinori, che mi colpì per la sua semplicità e per la capacità che aveva di stare vicino alle famiglie".


Cosa porta della sue esperienza di parroco nel suo nuovo incarico a servizio della chiesa di Fano?

"Sicuramente il rapporto con il popolo: l’atto di fede non deve essere solo pensato ma rinnovarsi giorno per giorno, come ho sperimentato sulla mia pelle a Montegranaro, dove ho avuto grande soddisfazioni e risposte nella vita con la comunità. Il teologo prepara il pane, ma è il parroco che la spezza il pane: la gente è molto più buona di quanto si pensi e dà più cose di quanto si immagini. Io credo che il compito della chiesa sia, oggi, quello di intercettare il grido di un’umanità che magari con modi diversi, cerca Dio. La chiesa non deve mostrarsi padrona ma serva e scandalizzare il mondo con la sua gratuità e misericordia. Penso che stiamo vivendo un tempo non di raccolto ma di semina, noi siamo i credenti non i padroni: i metodi le strutture non sono che mezzi, quello che serve è il coraggio dell’evangelizzazione. Il periodo è difficile, la gente sembra allontanarsi sempre di più dalla fede, ma, come diceva Paolo VI, il mondo di oggi ascolta i testimoni".



Lei è stato vicario con monsignor Gennaro Franceschetti, amministratore diocesano e poi di nuovo vicario con monsignor Luigi Conti: cosa le hanno lasciato questi incarichi?

"Sicuramente l’arte della prudenza e del governo, il superamento dell’ottica del campanile e lo sviluppo di una visione d’insieme della diocesi. Un’altra cosa che ho capito è l’importanza di lavorare con i preti, per i quali ho imparato ad avere rispetto e ammirazione. Sono diventato amministratore diocesano dopo la morte di Franceschetti, un momento per me di grande dolore e angoscia. Ma monsignor Gennaro, che tanto mi aveva dato negli anni precedenti, nel momento di lasciarmi mi disse che ero pronto e capace di prendermi la responsabilità di una diocesi, forse inconsciamente mi aveva preparato a questo ruolo. Con monsignor Conti ho sperimentato una condivisione quotidiana del lavoro pastorale e della fede, un metodo che credo mi servirà quando avrò un vicario nella mia nuova diocesi".



Quali sono state nel tempo le sue figure di riferimento, le persone a cui ancora oggi pensa o si rivolge quando ne ha bisogno?

"A parte quelli già citati considero miei maestri don Domenico Follenti, don Nicola Del Gobbo, don Pippo Giustozzi, monsignor Tarcisio Carboni, monsignor Cleto che mi ha accompagnato in tutta la mia vita sacerdotale, monsignor Franceschetti, monsignor Trastulli e don Filippo Concetti, con cui iniziai la mia esperienza di vicario generale della diocesi e che sono tutti scomparsi purtroppo".



A ottobre sarà a Fano: cosa le dispiace lasciare di più qui a Fermo?

"Tante cose: questa bella Cattedrale di cui sono stato rettore, il territorio della Marca, la gente che ho conosciuto, i fratelli sacerdoti, la mia famiglia e l’associazione “Figli in cielo”, che ormai seguo da qualche anno".


Simona Mengascini
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